Ciao:

    Nessun contatto nella tua lista chat

    Usa il tasto cerca in alto per aggiungere un contatto

img

PUNTI DI VISTA A CONFRONTO - Il suicidio assistito e la legge morale del medico

La lettera del collega David Di Lello, pubblicata dal quotidianosanità.it,  offre spunti  interessanti di riflessione sul suicidio assistito.

Il tema è più che mai attuale e molto sentito. Ha diviso l’opinione pubblica, così come la nostra categoria.

Il nostro auspicio è quello di ospitare altre opinioni, di aprire un dibattito sulla recente sentenza della Corte Costituzionale.

Un confronto sereno per raccogliere i diversi punti di vista. Per poi concluderlo con un convegno, da organizzare all’inizio dell’anno prossimo, invitando anche ospiti esterni all’Ordine dei medici.

In attesa di riscontri, riportiamo le riflessioni di David Di Lello: 

Gentile Direttore,
la notizia della sentenza della Consulta che ha dichiarato la non punibilità, a determinate condizioni, ai sensi dell’art. 580 C.P. di “chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli” ha riportato alla ribalta il tema del “suicidio assistito”, ha accesso il dibattito e ha scosso le coscienze, specialmente nel mondo medico italiano.
 
In attesa della pubblicazione delle motivazioni della sentenza la Corte ha diramato un comunicato che ha suscitato in me, medico del Sistema Sanitario Nazionale, anestesista-rianimatore, turbamento e preoccupazione.
 
Inizio dal titolo: “In attesa del Parlamento la Consulta si pronuncia sul fine vita”, tuttavia, non tutti i pazienti che si trovano nelle condizioni successivamente esplicitate nel comunicato si trovano a fine vita, anzi moltissimi che dipendono da un sostegno vitale hanno aspettative di vita di anni, talvolta anche di decenni. Il titolo, dunque, potrebbe essere non del tutto appropriato. Ho assistito e continuo ad assistere molti di questi pazienti sia in ambito ospedaliero che domiciliare e credo di avere una cognizione di causa non solo sul piano teorico, ma anche “sul campo”. Certamente in questi pazienti ho potuto constatare tante sofferenze fisiche e psicologiche, ma devo anche dire che, in certi casi, queste possono essere anche solo transitorie.

Pongo ora, con riferimento al titolo e al caso specifico di cui si è occupata la Consulta, un interrogativo: indipendentemente dalle sofferenze fisiche e psicologiche, era DJ Fabo davvero a fine vita? Quello che è dato di sapere è che era tetraplegico, cieco, dipendente da un sostegno vitale e pativa sofferenze fisiche e psicologiche, ma verosimilmente non era a fine vita!
 
Molti pazienti, dunque, che si trovano nelle condizioni descritte nel comunicato, non sarebbero eligibili, alla procedura della “sedazione profonda” a cui sempre la Corte fa riferimento, perché non in condizione di “fine vita”.
 
Ricordo, quindi, il giuramento di Ippocrate, che ogni medico ha prestato prima di iniziare la professione e che, tra l’altro, recita. “Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio” e più esattamente l’art 17 del Codice di Deontologia medica: “Atti finalizzati a provocare la morte. Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte.”
 
La Corte, quindi, fa riferimento alla legge 219/2017 e nello specifico agli artt. 1 e 2 che riguardano rispettivamente il Consenso informato e Terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e dignità nella fase finale della vita, ma, a tal proposito, è bene anche ricordare, in primis, l’art. 1, comma 6 della citata legge che prevede “Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”, ma anche che l’art 2 si riferisce a “Terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e dignita' nella fase finale della vita”, quando abbiamo detto che non tutti i casi di pazienti sofferenti e dipendenti da sostegno vitale sono a fine vita.
 
Veniamo ora a un quesito che ritengo cruciale: premesso che gli scopi della medicina e chirurgia sono prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, l’assistere una persona al suicidio può ritenersi un atto medico? Io ritengo che assolutamente no, perché non si tratterebbe di desistere da un accanimento terapeutico, ma di svolgere un ruolo “attivo” che non solo non fa parte della “mission” del medico-chirurgo, ma che è addirittura contrario ad essa.
 
Il Legislatore, dunque, preveda che tali funzioni siano delegate a soggetti che non siano medici, perché lo svolgimento di un ruolo attivo nel sopprimere una vita non solo non rientra nella “mission” dei medici-chirurghi, ma è contrario alla loro legge morale.
 
Veniamo al ruolo che dovrebbe avere il SSN: la legge 23 dicembre 1978, n. 833 istitutiva del SSN all’art. 2 elenca esattamente quali sono i suoi obiettivi e, quindi, ad oggi, risulta difficile comprendere il ruolo che la Corte, nel suo comunicato, vuole attribuirgli in tema di suicidio assistito.
 
Concludo affermando che il medico-chirurgo non può perdere un saldo orizzonte di riferimento, non può valicare certe linee di confine, certi valori sono e devono restare immutabili, perché sono quelli che hanno sempre conferito importanza, rispetto e progresso alla nostra nobile professione e citando Kant: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di reverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e più a lungo il pensiero vi si sofferma: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”.
 
Dott. David Di Lello
Medico-chirurgo anestesista-rianimatore, Isernia